Carne e Dei Caduti L’Orrore Arcaico di Huma Bhabha
Ci sono artisti che non si limitano a rappresentare il mostruoso, ma lo incarnano nella materia stessa. Le sculture di Huma Bhabha non sono semplici forme distorte: sono presenze, entità nate da un futuro post-apocalittico dove tecnologia e civiltà sono crollate, lasciando spazio a una nuova razza di dèi primitivi. Le sue figure sembrano reduci da un deserto nucleare o da un rituale tribale svolto in un limbo tra organico e alieno.
La cifra estetica di Bhabha è immediatamente riconoscibile: materiali grezzi, spesso riciclati o corrotti — polistirolo bruciato, legno consumato, argilla, resine, metallo ossidato — assemblati come reliquie di un mondo decaduto. La loro presenza fisica non è decorativa ma aggressiva: spigoli, crepe, superfici bruciate e corpi mutilati evocano non solo la morte, ma un’energia ancestrale che resiste al disfacimento. Sono resti, ma anche idoli.
Molte delle sue opere assumono i tratti di totem alieni o figure antropomorfe con teste sproporzionate, occhi vuoti e arti deformati. Non c’è mai un vero volto: solo un’eco dell’umano, sfigurato dal tempo o da una violenza non raccontata. Il risultato è un perturbante equilibrio tra sacro e mostruoso, come se l’artista riportasse alla luce statue di divinità cadute di una civiltà mutante.

La potenza dell’orrore in Bhabha non sta nella narrativa, ma nella carne della materia. Le superfici sembrano vive, crude, tumorali, evocando corpi carbonizzati o tessuti erosi. Ogni scultura appare sopravvissuta a un trauma cosmico: non racconta l’apocalisse, ne è un reperto.
Non sorprende che le sue opere richiamino immaginari sci-fi e horror, tra Lovecraft e Carpenter, tra archeologia extraterrestre e mutazioni da laboratorio. Le sue figure sembrano residui di un pantheon lovecraftiano scoperto in una discarica radioattiva, dove l’orrore non è spettacolarizzato ma sedimentato, fossilizzato nella materia.
Huma Bhabha non crea mostri: crea testimoni. Figure che ci osservano dal confine di un mondo che potremmo diventare.
Un’estetica perfetta per chi cerca nell’arte non solo il buio… ma ciò che lo abita.
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