Possessor

Possessor

Brandon Cronenberg, figlio del leggendario David

Dimostra con Possessor di non essere un semplice erede, ma un autore con una voce potente e personale. Il film si colloca perfettamente nel solco del body horror filosofico che ha reso celebre il padre, ma rielabora quei tratti in chiave più glaciale, astratta e tecnologica. Siamo in un futuro distorto, dove una misteriosa agenzia utilizza impianti cerebrali per far “possedere” i corpi altrui da assassini professionisti, che agiscono su commissione, sacrificando l’identità ospite per compiere omicidi irrintracciabili. Già questa premessa racconta un’epoca dominata dalla spersonalizzazione e dalla perdita del sé, concetti che Cronenberg figlio maneggia con intelligenza e crudele eleganza.

L’estetica di Possessor è un tratto distintivo

Quasi un secondo livello di lettura. La regia è precisa, minimale, ma capace di scivolare improvvisamente nel surreale più disturbante. I colori saturi e le texture digitali danno forma a una realtà che sembra sempre sul punto di disintegrarsi, come le menti dei protagonisti. Il montaggio alterna sequenze statiche a visioni distorte, oniriche, psichedeliche, che amplificano l’angoscia dell’identità scissa. Non c’è mai un momento di vero respiro: ogni inquadratura trasuda ansia esistenziale, ogni silenzio è carico di tensione.

La protagonista Tasya Vos

Andrea Riseborough, magnetica e spettrale, è un’assassina che, dopo troppi “ingressi”, inizia a perdere il controllo sulla propria identità. Il film segue il suo progressivo sfaldamento psichico, intrecciando il dramma umano con un’esplorazione spietata del corpo come veicolo alieno. Il corpo ospite, interpretato da Christopher Abbott, diventa il campo di battaglia tra due coscienze che si contendono il controllo. E qui Possessor si fa metafora: dell’alienazione da sé stessi, della frammentazione emotiva, del trauma come virus che si replica.

Cronenberg non risparmia nulla allo spettatore

La violenza è cruda, quasi rituale, mostrata con un’attenzione sadica ai dettagli anatomici. Ma non è mai gratuita: ogni colpo, ogni squarcio, ogni viso deformato dal dolore è parte integrante del tema centrale del film – il corpo come contenitore, la mente come prigione. La freddezza della tecnologia si scontra con il caos della psiche umana, e il risultato è un orrore rarefatto, quasi metafisico, che scuote più a livello concettuale che sensoriale.

Spoiler:

Il momento di rottura arriva quando Tasya, ancora intrappolata nel corpo di Colin, perde definitivamente la capacità di distinguere sé stessa dall’ospite. In una scena chiave, compie un gesto irreparabile: uccide suo figlio. Ma ciò che dovrebbe segnare il punto di non ritorno, invece, rappresenta per lei una liberazione. La sequenza finale, in cui dichiara di non provare alcun rimorso, suggella la completa cancellazione della sua umanità residua. È un finale freddo, disturbante, che abbandona ogni illusione di redenzione. Qui il film mostra il suo volto più nichilista: in un mondo dove il sé può essere programmato e trasferito, l’identità non ha più alcun valore.

Possessor è un film che non vuole piacere a tutti

È algido, ellittico, spesso ostico, e non si concede facilmente allo spettatore. Ma proprio in questa distanza glaciale si nasconde la sua forza. Brandon Cronenberg non fa horror per spaventare, ma per inquietare in profondità. Possessor è un incubo high-tech sul senso di sé nell’epoca della virtualizzazione totale, un’opera che non urla ma striscia sotto la pelle, insinuandosi come un virus. E quando si è finalmente dentro di te, non se ne va più.


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