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Run

Run – Fuga dalla madre

Quando l’amore diventa prigione

L’amore materno è uno dei sentimenti più puri e profondi che esistano. Ma cosa accade quando quell’amore si trasforma in ossessione, in controllo, in gabbia? Run, diretto da Aneesh Chaganty nel 2020, è un thriller psicologico che esplora i confini più oscuri del legame tra madre e figlia, trasformando la quotidianità in un incubo di manipolazione e paura.

Una storia di dipendenza e inganno

La protagonista è Chloe, una ragazza adolescente intelligente e curiosa, costretta su una sedia a rotelle a causa di una serie di malattie croniche. Vive con sua madre, Diane, in una casa isolata nel cuore degli Stati Uniti. Le due condividono ogni momento della giornata: medicine, lezioni, pasti, persino gli hobby.
A prima vista, il loro rapporto sembra perfetto. Ma dietro i sorrisi e la dedizione materna, qualcosa non torna.

Una pillola dai colori insoliti, un nome cancellato su un flacone, un comportamento troppo controllato. Chloe inizia a sospettare che la madre le stia nascondendo qualcosa. E più indaga, più il confine tra amore e follia si fa sottile, fino a svelare una verità agghiacciante.

Un incubo domestico

Con Run, Chaganty costruisce un thriller serrato e claustrofobico, ambientato quasi interamente tra le pareti di una casa che da rifugio si trasforma in prigione. L’attenzione del regista – già autore dell’ottimo Searching (2018) – si concentra sui dettagli: il rumore di una porta che si chiude, una ruota che cigola, una rampa di scale che diventa una montagna invalicabile.

Ogni elemento scenico diventa strumento di tensione. Lo spettatore vive l’angoscia di Chloe in prima persona, percependo la sua impotenza e la sua disperata voglia di libertà.

Le interpretazioni

Sarah Paulson, magistrale come sempre, interpreta Diane con un equilibrio inquietante tra tenerezza e follia. È una madre devota, protettiva, ma i suoi occhi tradiscono un buio profondo, una ferita mai rimarginata.
Kiera Allen, al suo debutto cinematografico, è una rivelazione: autentica, intensa, capace di trasmettere paura e coraggio in egual misura. La sua performance è tanto fisica quanto emotiva, e il fatto che l’attrice sia realmente disabile aggiunge un livello ulteriore di verità alla narrazione.

Il confronto tra le due diventa una danza psicologica, un gioco di potere tra vittima e carnefice, tra amore e distruzione.

Temi e simbolismo

Run affronta in modo potente il tema della dipendenza forzata e del controllo materno patologico. La casa rappresenta il ventre materno: un luogo che protegge ma soffoca, che nutre ma imprigiona.
Il film può essere letto anche come una riflessione sulla paura di crescere, sull’autonomia negata, e sul potere che si nasconde dietro la parola “amore”.

In più di un momento, Chaganty suggerisce che il vero orrore non è ciò che si vede, ma ciò che si capisce troppo tardi: la consapevolezza di essere sempre stati prigionieri.

Uno stile asciutto e teso

La regia evita l’eccesso, preferendo un linguaggio sobrio ma preciso. Il montaggio è rapido, la fotografia fredda e pulita, i silenzi pesanti come sassi. Tutto concorre a creare una tensione costante, senza bisogno di jump scare o effetti visivi.

Il film dura appena novanta minuti, ma ogni scena è calibrata con meticolosità. Non c’è spazio per la distrazione, solo per l’attesa e il sospetto.

Conclusione

Run è un thriller domestico raffinato e disturbante, dove il terrore nasce dal quotidiano, dal familiare, dal volto che si ama di più.
Aneesh Chaganty firma un’opera compatta e potente, che unisce il ritmo del cinema di suspense alla profondità del dramma psicologico.

Non ci sono fantasmi in questa storia, eppure la paura è tangibile. Perché non c’è niente di più spaventoso di una madre che ama troppo.


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