Sputnik
Sputnik (2020), diretto da Egor Abramenko
È un raffinato esempio di come il cinema russo possa entrare con forza nel panorama della fantascienza horror, offrendo una prospettiva originale e inquietante su un tema già ampiamente esplorato dal cinema occidentale: il contatto tra uomo e creatura aliena. Ambientato negli anni ’80, durante la Guerra Fredda, il film sfrutta l’atmosfera paranoica e l’isolamento tipico di quel periodo per amplificare il senso di angoscia e claustrofobia. La pellicola si presenta subito come un thriller psicologico più che un action sci-fi, scegliendo la strada dell’introspezione e della tensione lenta anziché l’adrenalina esplosiva.
La storia segue la dottoressa Tatyana Klimova
Una neuropsichiatra brillante ma dal passato problematico, che viene convocata in una struttura militare segreta per analizzare un cosmonauta tornato da una missione spaziale con comportamenti insoliti. Il comandante Konstantin, unico sopravvissuto, sembra in buone condizioni fisiche ma nasconde un oscuro segreto: dentro di lui vive un’entità aliena che emerge solo quando l’uomo è addormentato. Questa creatura, legata simbioticamente al suo ospite, è sia una minaccia per l’uomo che un mistero scientifico di inestimabile valore. Da questo punto di partenza si sviluppa un intreccio tra etica, scienza e militarismo.
Il cuore del film è il rapporto tra Tatyana e Konstantin
Lei, pur chiamata per aiutare, si trova a dover decidere tra obbedienza e coscienza, tra il dovere verso l’autorità militare e il rispetto per l’essere umano che ha di fronte. Questo conflitto morale è trattato con intelligenza e misura, evitando facili manicheismi. Il film rifugge dagli stereotipi: non ci sono eroi assoluti o mostri da distruggere, ma persone complesse intrappolate in una situazione fuori dal loro controllo. L’interpretazione di Oksana Akinshina nel ruolo della dottoressa è intensa e misurata, mentre Pyotr Fyodorov, nei panni del cosmonauta, riesce a trasmettere insieme forza, fragilità e una crescente disperazione.
Spoiler:
Man mano che la dottoressa scopre i dettagli sul legame tra Konstantin e la creatura, emerge un dettaglio agghiacciante: l’alieno non è semplicemente un parassita, ma si nutre di ormoni prodotti dal cervello umano… che ottiene solo quando la sua vittima è nel panico più totale. Questo porta i militari a organizzare segretamente delle esecuzioni controllate per alimentare il parassita, trasformando la base in un laboratorio sadico. Quando Tatyana tenta di fermare tutto, si scontra con un sistema che antepone il potenziale militare dell’alieno alla vita umana. Il finale, tutt’altro che consolatorio, mostra le conseguenze di questa ribellione, lasciando spazio a una riflessione amara sul prezzo della conoscenza e della libertà.
A livello tecnico, Sputnik è una pellicola sorprendentemente raffinata
La regia di Abramenko è sobria ma efficace, con inquadrature precise e atmosfere cupe che ricordano per certi versi Arrival o Under the Skin, più che Alien, al quale pure il film deve molto. Gli effetti speciali sono dosati con intelligenza: l’alieno è spaventoso e realistico, ma non invadente. La colonna sonora e il sound design giocano un ruolo essenziale nella costruzione del terrore, utilizzando il silenzio e suoni gutturali per mettere lo spettatore a disagio senza ricorrere a jump scare banali.
In conclusione
Sputnik è un’opera matura, che usa la fantascienza horror come lente per indagare la natura umana, la deumanizzazione nei contesti militari e la sottile linea tra scienza e mostruosità. Nonostante un budget non hollywoodiano, il film riesce a risultare visivamente convincente e narrativamente profondo. È una scelta perfetta per chi cerca un horror cerebrale e cupo, che preferisce l’angoscia sottile allo shock visivo. Una proposta originale per una rubrica che cerca qualità e profondità nel genere horror sci-fi.
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