The Texas Chainsaw Massacre, 50 anni di un capolavoro

The Texas Chainsaw Massacre, 50 anni di un capolavoro

Cinque ragazzi in viaggio su un furgone rimangono a corto di carburante in una provincia texana e diventano vittime di una famiglia di pazzi che uccidono, macellano e cucinano gli sfortunati automobilisti di passaggio.

Sono già passati cinquanta lunghi anni dal raccapricciante capolavoro di Tobe Hooper, e la sua freschezza è decisamente sconcertante. “Non aprite quella porta” (The Texas Chainsaw Massacre), uscito nel 1974, non solo ha mantenuto intatta la sua capacità di disturbare e affascinare, ma continua a essere un punto di riferimento insuperabile per il genere slasher.

L’innovazione di Hooper risiede in diversi aspetti. In primo luogo, il film ha introdotto un realismo crudo e spietato che lo distingue nettamente dai suoi predecessori. Potremmo chiamarlo il cugino sgradevole di Psycho (una parentela che deriva dal serial killer Ed Gein, che pare abbia ispirato, con le sue gesta, entrambi i film. Hooper sostenne che l’idea gli venne anche da un medico che staccò il volto ad un cadavere per farne una maschera di Halloween), ma se nel primo traspare l’eleganza, seppur morbosa, tutta inglese di Hitchcock, il film di Hooper ha la carica anarchica e spietata tipica dell’America rurale, zona di guerra proletaria dove la vendetta si consuma ciecamente verso i figli dei borghesi (che siano hippies o futuri yuppies poco importa, le colpe dei padri ricadranno sui figli!). Qui orribile è la società nella sua interezza (le notizie poco confortanti dalla radio sulla violenza dilagante lo confermano), proiettata in un lembo di terra texana dove non esistono vie di scampo, leggi o moderna civiltà.

I redneck che “ci odiano” avevano già fatto la loro inquietante apparizione due anni prima in quel piccolo capolavoro diretto da John Boorman: “Un tranquillo weekend di paura” (Deliverance). Molti degli elementi che avrebbero reso grande il film di Hooper erano già stati messi sul piatto. Anche nel film di Boorman infatti, si respira questa divisione forte e drammatica tra colui che consideriamo il socializzato (e civilizzato) e chi nega le regole di quella società rimanendo ai margini.

Forse Hooper aveva anche visto e ammirato il lavoro di Herschell Gordon Lewis: “2000 Maniacs”, un film che inizia in maniera molto simile al nostro. Qui la comunità intera si avventa contro i malcapitati yankee, la vendetta è una promessa ammuffita per i torti della guerra di secessione. Sotto la bandiera dei confederati questi maniaci cinematografici sono proliferati nel genere, tanto che dal “gotico americano” si passa a quello che possiamo considerare il “gotico cannibale”, spesso ambientato nella provincia texana, vera e propria “ultima frontiera” di mostri americani, luogo primordiale dalle gigantesche fattorie sperdute, spazi dove nessuno può sentirci urlare.

Hooper gira con un budget ridotto e con un’estetica documentaristica, questa scelta si raccorda con la voce narrante che avverte lo spettatore che l’episodio è realmente accaduto, creando un senso di verità che ne amplifica il terrore (stratagemma comune nell’horror, basti pensare all’esordio di Wes Craven: The Last House on the Left). Le riprese in stile guerriglia e l’uso di attori non professionisti contribuiscono all’atmosfera di autenticità che rende l’orrore prossimo e palpabile.

Personalmente, sono fermamente convinto che ci sia qualcosa nel film che abbia a che fare con il Vietnam. Daniel Pearl, il direttore della fotografia, sembra aver assorbito i servizi televisivi sulla guerra, girati sul campo in 16mm, tanto comuni in quegli anni. Il conflitto è ancora in corso durante l’uscita del film. Forse l’inconscio dei due cineasti riuscì ad assorbire le atrocità di quelle scene drammatiche perché c’è davvero una parentela estetica tra il film e quei documentari-reportage dell’esercito. Anche la scelta di utilizzare il suono in modo non convenzionale, come l’inquietante ronzio della sega elettrica e i rumori ambientali distorti, aggiunge un ulteriore livello di realismo. La colonna sonora atonale di Hooper e Wayne Bell, con i suoi clangori metallici e suoni disturbanti, amplifica il senso di panico e disorientamento spettatoriale.

Un nuovo modo di rappresentare la violenza in maniera realistica nei film era stato introdotto da Wes Craven con il torbido rape & revenge “The Last House on the Left”, ispirato da “La fontana della Vergine” di Ingmar Bergman. Ci fu qualcosa nel film di Craven che mise in difficoltà gli spettatori e la critica, potremmo chiamarla “plausibilità della violenza”. Il film era troppo reale, duro da guardare, in grado di stimolare i nostri più bassi istinti (Haneke docet), così, quando si scatena la ferocia del padre per vendetta, noi siamo tutti dalla sua parte, vogliamo estinguere per sempre la banda di Krug. È in questo momento di verità e di ebbrezza omicida che appare la “motosega”, due anni dopo Hooper spolvererà l’attrezzo per l’occasione.

Protagonista del titolo e del look di uno dei protagonisti del film (Leatherface, tra i più terrificanti mostri del nuovo horror), la motosega si ritaglierà uno spazio tutto suo nella storia del cinema. A quanto pare, il nostro regista, frustrato da una moltitudine di persone stipate in un negozio sotto il periodo di Natale vide una rastrelliera di motoseghe e gli venne in mente di usarne una per scappare dal negozio.

Nel film di Tobe Hooper la motosega ha la funzione di far sembrare il nostro faccia di cuoio ancora più possente (Gunnar Hansen, l’attore sotto la maschera, è alto 1,93), Hooper la userà con intelligenza. Da un lato, l’estrema potenza di una lama rotante pensata per abbattere alberi dà l’impressione che una vera furia si stia abbattendo sui malcapitati (la scelta di armare Leatherface con una motosega aumenta il terrore e la brutalità del suo personaggio), dall’altro lo rende costretto a inseguire i ragazzi “zavorrato”, lasciando nello spettatore una fievole speranza.

Il film è quindi una sintesi interessante di una serie di lavori che l’avevano preceduto, ma è anche innovativo per la sua rappresentazione della violenza. Sebbene non mostri esplicitamente molte scene sanguinolente, il “suggerimento” dell’atto brutale e l’immaginazione dello spettatore giocano un ruolo cruciale, superando di gran lunga gli effetti speciali del periodo. Questo approccio, abbinato alla messa in scena di una famiglia di cannibali psicotici, ha creato un impatto duraturo nella cultura popolare ed è stato in grado di influenzare innumerevoli film horror successivi.

Secondo Quentin Tarantino è uno dei film “perfetti” della storia del cinema, intoccabile. Non posso che essere d’accordo, e riflettendo sull’intoccabilità vorrei aggiungere una cosa: il film, materico e allucinato, ha il colore del sangue che si sposa perfettamente con quello che accade sullo schermo. Anche “The Texas Chainsaw Massacre” è stato girato in 16mm, come i filmini in Vietnam. Queste pellicole mostravano un degrado naturale, il triacetato infatti (che sostituì la celluloide poiché troppo infiammabile) ha una dominante rossa che tende ad aumentare. In sostanza, questo film invecchiando diviene sempre più rosso, più sporco, più sanguinolento e pensando a questo direi che siamo di fronte all’arte dentro e fuori l’universo diegetico.

Insomma “Non aprite quella porta” non è solo un capolavoro dell’horror che NON andrebbe restaurato, ma anche una vera e propria gemma cinematografica che ha ridefinito i confini del genere, dimostrando come il terrore possa essere efficace attraverso l’uso sapiente della narrazione visiva e sonora.


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