Come Play

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Come Play – L’amico immaginario che vive nello schermo

Quando la solitudine digitale apre le porte a qualcosa di mostruoso

Nel 2020, anno in cui la distanza e la tecnologia sono diventate parte integrante della nostra quotidianità, è arrivato un horror capace di parlare proprio di questo: Come Play, diretto da Jacob Chase e prodotto da Amblin Partners, la casa fondata da Steven Spielberg. Un film che mescola paura, malinconia e un profondo senso di isolamento, costruendo una storia che parla tanto ai genitori quanto ai figli.

Un bambino solo, un mostro in cerca di amici

Il protagonista è Oliver, un bambino affetto da disturbo dello spettro autistico che comunica attraverso un tablet. Introverso, spesso bullizzato e incapace di esprimersi a parole, Oliver trascorre gran parte del suo tempo immerso nei dispositivi digitali. È lì che scopre un’app misteriosa, contenente un racconto illustrato intitolato “Misunderstood Monsters” (“Mostri incompresi”).

Il protagonista del racconto è Larry, una creatura solitaria che desidera disperatamente un amico. Ma più Oliver legge, più la storia diventa inquietante — e presto Larry comincia a manifestarsi nella realtà, apparendo attraverso schermi, videocamere e riflessi.

Il mostro dietro lo schermo

Larry non è un demone convenzionale. È una presenza spettrale nata dal bisogno di connessione, che sfrutta la tecnologia come ponte verso il mondo reale. Il suo aspetto allampanato e la sua voce flebile evocano una pietà disturbante: non è il male puro, ma una creatura tragica che incarna la solitudine amplificata dai dispositivi digitali.

Jacob Chase, espandendo la propria idea originaria (il corto Larry del 2017), costruisce un horror che non si limita ai jumpscare: gioca con l’attesa, l’oscurità e la tensione emotiva. La paura cresce nel silenzio, nelle luci tremolanti degli schermi e nei momenti in cui la realtà e il virtuale si fondono.

Una fiaba nera sulla comunicazione

Più che un film di mostri, Come Play è una fiaba contemporanea. Oliver è un bambino che cerca di essere compreso, mentre sua madre, interpretata da Gillian Jacobs, tenta disperatamente di comunicare con lui. Larry, in fondo, non è altro che lo specchio delle loro incomprensioni.
La tecnologia, presentata inizialmente come unico mezzo di connessione, si trasforma nel canale del terrore — ma anche nella chiave per la comprensione reciproca.

Il film trova la sua forza nell’equilibrio tra orrore e dramma familiare: dietro ogni spavento si nasconde un’emozione reale, dietro ogni apparizione di Larry c’è la metafora del bisogno umano di contatto.

Un horror dell’era digitale

Visivamente, Come Play sfrutta al massimo il linguaggio tecnologico: schermi che si accendono da soli, webcam che rivelano presenze invisibili, dispositivi che diventano finestre su un altro mondo.
Nonostante un budget contenuto, l’atmosfera è sempre efficace, sostenuta da un sound design che amplifica la tensione e da una fotografia che gioca con l’oscurità e i bagliori freddi dei display.

Conclusione

Come Play è uno di quei film horror che riescono a toccare corde emotive senza rinunciare alla paura. È una storia su come i mostri della solitudine possono insinuarsi nella vita reale quando la tecnologia diventa un surrogato delle relazioni umane.
Larry non è solo un essere che spaventa — è la rappresentazione di un bisogno universale: essere visti, capiti, amati.

Un horror malinconico, inquietante e sorprendentemente tenero, che ci ricorda quanto fragile possa essere la linea che separa la connessione dalla possessione.


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