Traffic

Traffic
di Steven Soderbergh (2000)

Un film corale che intreccia le storie di diversi personaggi attorno a un unico, grande tema:
il traffico internazionale di droga.

“Com’è Washington?
Diciamo che assomiglia a Calcutta: sommersa di mendicanti; solo che questi mendicanti hanno abiti da millecinquecento dollari e non dicono “per favore” e “grazie tante”.
(Robert Hudson Wakefield)

Incastri e combinazioni.

Che cosa possono avere in comune il capo anti droga nominato dalla Corte Suprema, la moglie di un criminale e un poliziotto corrotto?

Qual é il filo conduttore che lega le vite di questi personaggi?
La risposta é da ricercare in quello che é il protagonista assoluto di questa pellicola: il traffico, il commercio e l’abuso di droga.

Un mondo fatto di bugie, sottotrame e intrecci,
dove nessuno e niente é al sicuro, dove perdizione e pericolo sono elementi sempre ben presenti dietro a ogni angolo.

Il male si insinua nella vita di tutti e non fa sconti. Colpisce ogni cosa e infetta ogni luogo.

Ed ecco allora che la figlia adolescente di colui che é in primo piano nella lotta al commercio e allo spaccio, si ritrova a diventare schiava e succube fino a prostituirsi in una camera di albergo per una dose.

Può succedere anche che la moglie ignara di un potente boss, passata la sorpresa per la scoperta della doppia vita del marito, si ritrovi in prima linea a gestire gli affari malavitosi del consorte finito dietro le sbarre.

O ancora, può capitare che due agenti di polizia messicani arrivino a scoprire i legami nascosti e illeciti tra i cartelli e l’esercito.

Considerazioni.

Soderbergh costruisce un film in cui i personaggi impegnati nelle relative storie non si parlano mai ma si incrociano spesso.

Usa i colori, in modo geniale, per sottolineare gli stati d’animo dei protagonisti e le situazioni narrate.

Un giallo intenso, “pesante” e malato per Tijuana e la sua corruzione; un blu freddo per Washington, gelido come un padre impegnato e appassionato nel lavoro ma assente in famiglia; un neutro per San Diego e la sua apparente perfezione.

Una grande prova di regia che sa far rendere al meglio le immagini, soprattutto nelle sequenze prive di dialoghi, un montaggio di classe e una sceneggiatura che riesce a tenere insieme le tre principali storie raccontate.

Il tutto premiato giustamente da tre Oscar a cui se ne aggiunge un quarto per il miglior attore non protagonista, un Benicio del Toro che sembra nato per la parte che interpreta.

Ma non vanno dimenticate le prove attoriali dei due genitori tormentati (Michael Douglas e Amy Irving) e quella di una affascinante Catherine Zeta-Jones che recita il ruolo di una moglie incinta durante la sua reale gravidanza, dunque senza simulare nulla.

Tuttavia, chi sorprende davvero, a mio avviso, sono i più giovani.

Mi riferisco, in particolare, a
Erika Christensen e Topher Grace: i loro visi puliti e angelici, distrutti e corrotti dalla dipendenza, sono di forte impatto visivo e spiegano, più di mille parole, il pericolo e la devastazione

Un grande film.

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